“Alluvioni” di Giorgio Nebbia Prof. Emerito Università di Bari

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 5 maggio 2009

 

Che ambiente fa ? Non tanto buono in questo inizio della primavera 2009. Ancora una volta le piogge allagano le campagne e le città pugliesi, ancora una volta il Po si gonfia di acqua sporca, piena di detriti a fango provenienti dalle valli piemontesi e da quelle lombarde; il Ticino sfiora le arcate del celebre ponte coperto. La crescita del livello del Po lascia con il fiato sospeso; sembra di rivivere le scene del film “Il ritorno di Don Camillo” che utilizzò i documentari della grande piena del 1951.

Ancora una volta l'acqua di una pioggia intensa spazza via vite umane, ricchezze, raccolti agricoli; ancora una volta --- ma ormai queste scene si verificano due volte all'anno, con continua crescente gravità --- si assiste ai dolori umani. Ancora una volta si assiste a popolazioni che invocano aiuti per colpa di questa nuova “calamità naturale”. Nessuno può fare un conto dei soldi che la comunità nazionale ha dovuto pagare, solo dalla Liberazione in avanti, solo per i risarcimenti per i raccolti e le fabbriche e le case distrutti dalle acque, per la ricostruzione delle strade e dei ponti. Una stima ragionevole indica una spesa equivalente a oltre 300 miliardi di euro, una cifra che peraltro non tiene conto dei dolori, dei morti, degli affetti scomparsi, della rabbia e della paura, tutti "valori" che non si misurano in soldi.

Le cause di questi eventi catastrofici “non naturali” che affliggono l’Italia, dal Nord al Sud alle isole, sono sempre le stesse: nelle valli la distruzione della vegetazione che potrebbe rallentare il moto delle acque e trattenere i detriti, l'abbandono delle parti interne del paese, la copertura del suolo con strade e abitazioni e fabbriche spesso costruite nel posto sbagliato, la mancata manutenzione dei fiumi, la creazione di argini artificiali per portare via al fiume spazi per altre costruzioni e strade. La strage di vite e di beni si potrebbe rallentare e fermare nel prossimo futuro se si facessero, a cominciare da oggi, alcune semplici e sgradevoli cose. Prima di tutto una riedizione della legge sulla difesa del suolo, la “centoottantatre”, che era stata approvata, con grandi dibattiti e molte speranze, nel 1989, esattamente venti anni fa: uno scoraggiante anniversario perché la legge fu abrogata col testo unico sull’ambiente del 2006 e le sue norme sono state riscritte e snaturate in tale testo unico.

La difesa del suolo contro l’erosione e per evitare le alluvioni richiede --- e questo richiedono anche le norme europee --- che le azioni politiche siano condotte sulla base dell’unica unità territoriale ecologicamente corretta che è il bacino idrografico, il complesso di valli, torrenti, affluenti e fiume principale che raccoglie e trasporta con le acque, fino al mare, tutti i rifiuti e le scorie delle attività umane e degli stessi processi geochimici naturali. Ad esempio: l’alluvione e lo straripamento del Po sono la conseguenza di quanto è avvenuto nelle città, nelle fabbriche, nei boschi, nei campi delle valli piemontesi, lombarde, emiliane, in cui scorrono gli affluenti del grande fiume.

Una legge per evitare future alluvioni e distruzioni richiederebbe che ogni bacino idrografico, quello del Po, del Tevere, del Bradano, del Sarno, del Garigliano, dell'Arno, eccetera, fosse considerato l’unica vera unità territoriale entro cui decidere, pianificare dove e come pulire gli argini e dragare il greto dei fiumi, dove non si deve prelevare la sabbia, dove si devono costruire i depuratori e effettuare il rimboschimento e in quale modo, dove e come è possibile coltivare e che cosa, dove è possibile e dove non si devono costruire case e fabbriche, il tutto sulla base di un "piano di bacino". Purtroppo, per lontane ragioni storiche, i confini dei bacini idrografici non coincidono quasi mai con i confini delle unità amministrative: regioni, province, comuni, comunità montane, ciascuna delle quali fa una propria politica del territorio, spesso in contrasto con le leggi della natura.

Si vedano le licenze di costruzione di edifici nel fondo valle, nelle golene dei fiumi, gli spazi che la natura ha riservato a se stessa per l’espansione delle acque di piena, nelle nostre stesse “lame”, antichi (e futuri ?) canali naturali di scorrimento di acque, si vedano le strade e autostrade costruite in zone franose. I conflitti di competenze e di interessi economici fra regioni e fra le regioni e lo stato centrale, hanno sempre impedito una azione unitaria: si pensi al Ticino che per metà “appartiene” al Piemonte e per metà alla Lombardia; si pensi al Fortore che “appartiene” per metà alla Puglia e per metà al Molise, all’Ofanto il cui bacino idrografico “appartiene” alla Campania, alla Basilicata e alla Puglia.

Il territorio, le valli, le acque, non ”appartengono” a nessuno se non al popolo che vi abita, che ne usa le ricchezze di boschi e acque e valli, che in essi sversa i propri rifiuti e che è quello che pagherà i danni se vi saranno alluvioni e frane. La seconda sgradevole ricetta per il futuro consiste nel "coraggio di dire no". Il disastro che stiamo vivendo deriva dalla mancanza di piani regolatori, o da piani regolatori sbagliati, o dalla tolleranza e complicità della pubblica amministrazione nei confronti delle costruzioni. Se si vogliono evitare future morti e alluvioni e frane occorre avere il coraggio di vietare --- anche a costo di dispiacere piccoli e grandi interessi economici ed elettorali e di potere --- le costruzioni e gli interventi sul territorio quando essi violano le leggi della natura e del moto delle acque. Ma le leggi e decisioni umane, anche se giuste, servono a poco, lo si è visto con la legge sulla difesa del suolo di venti anni fa, se non esiste una cultura delle acque e del loro moto.

Come modesta proposta vorrei suggerire la pubblicazione di libretti che descrivano i diversi bacini idrografici --- l’intero sistema di valli, affluenti e fiume principali, dagli spartiacque fino al mare --- da distribuire ai ragazzi nelle scuole, in modo da sollevare una specie di movimento che induca ogni cittadino italiano a riconoscersi figlio di un fiume e delle sue valli, di un bacino idrografico, insomma; allora (forse) non ci saranno più liti fra Molise e Puglia, fra Piemonte e Lombardia, fra Umbria e Lazio, e così via, in una visione di grande nuova solidarietà di persone unite dall’unico valore che conta, quello delle acque, fonte di benessere, di vita, di energia e non più di disastri. Tutto il potere alla geografia.  

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